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Etnobotanica del territorio padovano

Le piante alimentari, officinali e “utili” del territorio padovano.

Il territorio padovano è molto vario e per questo ricco di specie vegetali. Le colline, la pianura alluvionale e la laguna formano un mosaico composito che permette lo sviluppo di diversi tipi di vegetazione con circa 1200 diverse entità spontanee autoctone, molte delle quali hanno trovato un utile impiego fin dall’antichità.

Per i Romani la comune verbena era pianta adatta a preparare filtri d’amore. Plinio narra che la verbena era la pianta che portavano in mano gli ambasciatori di pace.
Secondo Dioscoride chi procreava dopo aver mangiato tuberi di orchidee, a seconda se il tubero era quello sodo o quello flaccido, generava figli maschi o figlie femmine.

Il corbezzolo (sgolmare o cocomare), alberello dalla bacche commestibili, diffuso sugli Euganei, era una pianta sacra per i Romani. Nei periodi di penuria di carbone, fino al secolo scorso, il suo legno, per le grandi capacità caloriche, veniva usato per lavorare il ferro.

Secondo la medioevale Scuola Salernitana la ruta (erba rua o roda), specie da noi spontanea sulle alture, curava le malattie degli occhi, cacciava i veleni e allontanava le pulci. Per tutto il Medioevo essa fu considerata capace di tenere lontani gli spiriti maligni.
Secondo la Teoria delle Segnature, in voga fino all’Età Moderna, determinate caratteristiche visibili delle piante erano un segno divino che indicava quale
parte del corpo erano adatte a curare.

Non sono lontani i tempi in cui la cenere ricavata dalla salsola soda, una chenopodiacea che cresce ai limiti delle barene, veniva usata nell’industria vetraria muranese. Ancora oggi i suoi germogli (roscani o barba del frate) vengono considerati una vera leccornia dagli abitanti della zona litoranea. Fino agli Anni Sessanta del Novecento, nelle campagne padovane erano a stuoli le donne che raccoglievano rosette basali o germogli di piante spontanee come integrazione di un magro desinare che aveva origini antiche. La silene rigonfia (carletti o scrissioi), la silene bianca (recioine o rece de lievore), il tarassaco (pissacan o brusaoci), il luppolo (bruscandoi) e il papavero (rosoe) in tutta la Provincia erano una componente stabile della dieta della gente di campagna e ancora oggi sono verdure molto apprezzate. Il raperonzolo (ranpussoi), l’asparago pungente (sparasee o sparasine) e il pungitopo (bruschi) sugli Euganei trovavano e trovano moltissimi estimatori.
Da autorevoli pareri di anziani si deduce che non c’è legno migliore dell’acero campestre per fabbricare zoccoli. Molti ancora si ricordano dei “caregheta” dell’Agordino che, in sella a robuste biciclette, percorrevano tutto il Padovano andando di casa in casa a impagliare le sedie con le foglie di varie specie di carice (caresin) raccolte lungo i fossi e i canali. Il legno della robinia (rubina, rubin o gasìa), pianta arrivata in Europa dell’America all’inizio dell’Età Moderna, ben presto si rivelò importante per l’ebanisteria domestica e il migliore in assoluto per costruire i denti dei rastrelli, ancor più dell’ottimo e nostrano corniolo (cono(l)aro). Ancora oggi in qualche mercato si possono trovare spazzole da lavare fatte con le radici della trebbia maggiore (ipia o erba ipia), una graminacea che popola i prati aridi e le radure boschive soleggiate degli Euganei.