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Legni, fronde e radici nelle attività quotidiane nei Colli Euganei

Nei lavori di ebanisteria domestica sui Colli Euganei la scelta del materiale vegetale adatto ai vari usi veniva tramandata attraverso le generazioni. La presenza di numerose specie arboree permetteva scelte oculate per ogni circostanza. Ogni legno veniva accuratamente selezionato a seconda dell’ uso a cui era destinato. Per realizzare il manico di una mazza o di un martello nessun scalpellino si sarebbe mai sognato di battere per giorni interi le pietre con un martello con il manico fatto con legno di salice.

Tutti sapevano che il legno migliore per costruire le impugnature per martelli e mazze, destinati a percuotere a lungo superfici dure, era quello del bagolaro (Celtis australis) un grande albero che ama i suoli pietrosi e dirupati. Per il contadino, invece, che poco si curava della natura del legno del suo martello, che gli serviva solo saltuariamente per piantare chiodi, era importante l’efficacia dei denti del suo rastrello e sapeva bene i miglior legni erano quello del corniolo (Cornus mas) o quello della robinia (Robinia pseudacacia) una fabacea arrivata in Europa nel XXI secolo ma che ben presto cominciò ad essere apprezzata per i suoi molteplici pregi.

Risolto il problema dei denti doveva pensare all’asta sulla quale dovevano i denti essere inseriti. Era indispensabile che fosse fatta di legno di salice bianco (Salix alba) o di acero campestre (Acer campestre) per l’attitudine che entrambi avevano a non fendersi. Anche il manico poteva farlo di salice ma era meglio se al posto del salice nel bosco si era procurato un fusto ben diritto di orniello (Fraxinus ornus) in quanto più robusto e flessibile. I tronchi o i rami venivano prima individuati e scelti accuratamente a seconda e del profilo e della dimensione da scegliere e raccolti al momento giusto, a volte anche dopo averne osservato per anni l’evoluzione della forma e delle proporzioni.

C’erano lavori generici adatti a tutti e lavori più fini e talvolta specialistici, che richiedevano un particolare abilità, come quella per costruire cesti. Per fare i cesti le stecche e i manici erano sempre di castagno (Castanea sativa) ma per l’intreccio oltre al castagno si potevano usare rametti di sanguinello (Cornus sanguinea subsp. hungarica) o di salice bianco, soprattutto la sottospecie a rami gialli fortemente flessibili (Salix alba var. vitellina).

Questi ultimi, inoltre, erano un strumento indispensabile per legare i tralci e i tutori delle viti ai fili di ferro dei filari o per legare le fascine o, ancora, per rivestire fiaschi e damigiane. Se quello di avvolgere contenitori di vetro o fare cesti, a volte era un vero e proprio mestiere, fare i nodi con i rami di salice per le fascine era un’arte apparentemente semplice, ma anch’essa per essere appresa richiedeva tempo, molte prove e tanta pazienza. Occorreva piegare e girare il ramo senza spezzarlo per poterlo annodare e poi infilare l’estremità tra i rametti del fascio di legna per tenere stretto il nodo. Non era da tutti costruire con precisione attrezzi maneggevoli.

Congegnare il manico di una falce, ad esempio, sembra un’impresa di poco conto, ma non è così; questo, infatti, era necessariamente leggero e ben bilanciato altrimenti la fatica, durante il lavoro, subito si faceva sentire. L’asta doveva essere di salice ma le impugnature dovevano essere ricavate da rami di castagno o di orniello. Il colpo d’occhio esperto permetteva di cogliere nell’albero vivo la forma già prefigurata; poi con un lavoro paziente e meticoloso si ottenevano il profilo la bilanciatura e le misure che permettevano il minimo spreco di energie durante gli sfalci. Costruire un carro richiedeva il lavoro di esperti e chi lo faceva sapeva bene che le barre dovevano essere di olmo (Ulmus minor), le ruote di acero campestre con i raggi preferibilmente di robinia e l’asse sempre di olmo.

Anche le slitte da traino, tanto usate per trasportare legna o fieno non potevano essere fatte con un legno qualsiasi ma con un materiale che resistesse allo strofinio e che non facesse eccessivo attrito. La soluzione nella gran parte dei casi stava nel legno di quercia (Quercus petraea, Quercus pubescens, Quercus dalechampii, Quercus robur). Il legno di quercia veniva adoperato accanto al legno di sambuco anche per fare manici di asce e picconi ed era usato quanto il legno di castagno, per fare le doghe delle botti. Non c’erano legni migliori di quello dell’acero campestre per fare zoccoli. Questo si fessurava solo eccezionalmente e garantiva un contatto con i piedi vellutato e una perfetta tenuta dei chiodi nella parte inferiore. Il corbezzolo (Arbutus unedo) aveva un potere calorico così alto che veniva usato per lavorare il ferro ed era insostituibile per fare le braci per i ferri da stiro. Le parte ricurva dell’erica arborea (Erica arborea) dove il tronco si congiunge alla ceppaia, quando aveva la sagoma giusta, talvolta, veniva risparmiata dal fuoco (il legno di erica arborea è uno dei migliori legni da ardere) e modellata sapientemente per fare pipe.

Notevole doveva essere, poi, l’esperienza per riuscire a costruire, unendo rami di erica arborea e sanguinello le flessibili e allo stesso tempo robuste scope prive di manico, che venivano impiegate per ammassare i chicchi dei cereali stesi nelle aie o per spazzare stalle e cortili. Non c’erano legni più belli di quelli del gelso (Morus alba) per fare le sedie; solo il rosso del ciliegio (Prunus avium) poteva competere con il suo splendido giallo che spiccava tra i mobili rustici delle cucine, fatti con il pero (Pyrus communis subsp. communis), con le querce, con il noce (Juglans regia), con il ciliegio stesso e con il castagno. Quest’ultimo, per la sua peculiare proprietà, inoltre, che è quella di dividersi a strati di spessore identico, era usato per fare le scale a pioli e, dopo adeguata sagomatura, i bigolli (bilancieri) per il trasporto di secchi e di cesti.

Curioso era infine l’uso che veniva fatto della corteccia dei rami giovani; in primavera, infatti, per la particolare prerogativa di sfilarsi facilmente dal legno, era utilizzata, insieme a quella del salice, per costruire rudimentali zufoli, detti “pive”, con cui i bambini si dilettavano a emettere suoni, nell’infruttuoso tentativo di intonare qualche cosa che somigliasse vagamente a una melodia. Se la melodia non veniva si poteva sempre sfogare la delusione sfilando dal collo l’immancabile fionda costruita, secondo le regole, con la forcella di orniello o di sanguinello e tentare di colpire qualche merlo o qualche passero appoggiato a un ramo. Sicuramente la fauna selvatica dei Colli con questo metodo di caccia ha subito danni assai lievi, con certezza minori di quelli subiti dai lampioni delle strade. Non solo le piante legnose, però, trovavano impiego utile; anche alcune specie erbacee e alcuni frutici, infatti, erano di largo uso.

Le foglie di alcune grandi carici che crescono lungo i fossi o negli stagni (Carex acutiformis, Carex riparia, Carex acuta subsp. acuta, Carex elata, …) erano un materiale indispensabile per l’impagliatura delle sedie. I fusti di alcuni giunchi (Juncus effusus, Juncus conglomertatus, …), erano indispensabili per costruire graticci di canna palustre (Phragmites australis) e insieme a quelli della lisca lacustre (Schoenoplectus lacustris s.l.) erano largamente usati per assicurare ai ferri dei filari i germogli dei tralci delle viti carichi di grappoli. La trebbia maggiore (Chrysopogon gryllus) una poacea tipica dei prati aridi o degli spiazzi soleggiati delle alture, offriva, con le sue tenaci e flessibilissime radici, il materiale per costruire spazzole con cui strigliare mucche, asini e muli o per strofinare i panni sull’asse per lavare. I rami dell’asparago pungente (Asparagus acutifolius) procuravano un ottimo rifugio e un sicuro appiglio ai bachi da seta (larve di Bombix mori) per costruire il bozzolo. Il pungitopo (Ruscus aculeatus), legato a mazzi, era un eccellente strumento per pulire i camini dalla fuliggine.

Le fronde della felce aquilina (Pteridum aquilinum) talvolta si usavano per la copertura di capanni da caccia o di ricoveri per il bestiame. I duttili rami del rovo comune (Rubus ulmifolius) infine, insieme a corde fatte con le foglie intrecciate delle carici o ai rametti di vitalba (Clematis vitalba) trovavano largo impiego nella legatura dei fasci di culmi di frumento con cui si costruivano i covoni in attesa della trebbiatura.

Celi Brojo e il gruppo del Bigolaro. Ricordi di Celi e informazioni di Sergio Tramontan agricoltore di Galzignano Terme e di Giulio Masin (il bigolaro) cavatore di Galzignano Terme.